• Le testimonianze

    Volontari in Etiopia

"Ho vissuto e visto cose che non avrei mai immaginato"

di Stefano Oltolini

Etiopia, Luglio 2011.

Estate tra laurea e lavoro. Sono giovane ed ho tempo. Lo faccio? Lo faccio!

 Prenoto il volo e faccio i vaccini del caso.

Quattro giorni dopo sono in aereo, destinazione Addis Abeba.

Non so cosa mi aspetti, non so cosa aspettarmi. L’Africa.

L’Africa che non avrei mai detto: fredda, verde e piovosa.

Arrivo al Villaggio Madonna della Vita. Il tempo di scendere dalla macchina e la prima sensazione è stranissima: tanti occhietti che mi guardano, che mi fissano, che mi sorridono. Ho i brividi e non ho ancora visto niente!

I bimbi si fanno subito in quattro per me, insistono per portarmi in camera la valigia seppur pesi più di loro.

Mi presento, parliamo due lingue diverse e reciprocamente incomprensibili, ma basta un pallone da calcio per capirsi!

Pronti, via! La partita ha inizio, sembra un “tutti contro tutti”, grandi e piccoli, maschietti e femminucce. C’è chi si fa male, due lacrime e tutto è passato. C’è chi è più bravo, ha il senso del gioco, fa goal ed esulta; c’è chi lo è meno, fa goal per sbaglio e non se ne accorge.

Mentre giochiamo, il sole lascia spazio alle nuvole minacciose. In poco tempo iniziano a piovere gocce pesanti, così corriamo al chiuso. Mi portano a conoscere i bimbi più piccoli, facendo a gara per tenermi le mani; vorrei averne una per ognuno, per non scontentare nessuno: la felicità è la cosa più bella da dare, specie se per questi fantastici bambini la felicità non sia data, come lo fu per me a suo tempo, dal giocattolo tecnologico o dalla maglietta del calciatore preferito. Sono in Etiopia da poche ore, vedo cose che non avrei nemmeno mai immaginato, ma non ho ancora visto niente!

I giorni passano veloci, tra una partita di calcio, una a palla prigioniera, una ad un gioco strano che tutt’ora non ho capito ma che tanto divertiva quei bimbi che, agitandosi, urlavano come matti; pranzi e cene in cucina con il personale del Villaggio, incredulo nel vedermi chiedere con minima insistenza di mangiare i piatti tipici che preparavano per sé stessi, quasi come a dire: ma come, noi ti facciamo la pasta, e tu non la vuoi?



Qualche giorno dopo il mio arrivo ho conosciuto Roberto Rabattoni, un “personaggio” nel vero senso della parola; Giovanna e Stefania, due ragazze del Centro Aiuti per l’Etiopia. Insieme a loro ho lavorato per qualche giorno nell’ufficio dedicato alle adozioni a distanza. Dal mattino presto, madri e padri, nonni e zii, parenti ed amici dei bimbi adottati, si mettevano pazientemente in fila fuori dal Villaggio ad attendere il proprio turno. Per ogni bimbo, la prassi è la stessa: “intervista” per aggiornare il benefattore sulla propria situazione famigliare, scolastica e personale; letterina o disegno del bimbo ai propri “genitori” italiani, foto con l’accompagnatore, o solo/a da inviare in allegato alla letterina e sacchettino regalo contenente giochi, penne o pastelli, quaderni e vestiti. Un paio di giorni sono anche stato in quella che credo possa definirsi la sede etiope dell’associazione, collocata nel quartiere di Bole: il lavoro svolto è consistito nell’aggiornare gli archivi dei bimbi adottati a distanza, ed è stato molto triste l’aver dovuto in più occasioni sostituirne qualcuno perché defunto.

Senza esser uscito dal Villaggio prima, già iniziavo a farmi un’idea della realtà in cui stavo vivendo. Il giorno in cui sono partito per il villaggio di Areka, Regione nel Sud dell’Etiopia, a 300 km circa dalla capitale Addis Abeba, ho aperto veramente gli occhi su ciò che è l’Etiopia. Stagione delle piogge, fango ovunque, gente che cammina scalza, a petto nudo sotto la pioggia, mendicanti seduti per terra, macchine di quarta mano come Fiat 124 e 128 che tossiscono fumi neri, asini carichi di ceste, asini con le zampe legate e “parcheggiati” ai bordi delle strade, cani randagi ovunque, persone sdraiate sull’asfalto che nella migliore delle ipotesi dormono, bambini che pascolano greggi, donne che impastano cemento, impalcature erette attorno a nuovi palazzi e fatte in legno di eucalipto, palazzi in vetro sedi di banche attorniati di baracche in lamiera, lustrascarpe, botteghe di macellai con esposte parti di bestiame scuoiato e nero tante le mosche che lo ricoprono, poliziotti in moto senza casco, pulmini in cui vengono stipate almeno dieci persone più della capienza massima, uomini mano nella mano camminare e chiacchierare

Quante cose ho visto, ma non ho ancora visto niente!

Arrivato ad Areka, al Villaggio Giovanni Paolo II, sembra di essere nel paradiso terrestre. Il villaggio è immenso, nuovo, stupendo, verde, silenzioso, sorto in mezzo al nulla; ci sono coltivazioni di banane, mango, papaya, caffè, canna da zucchero, orti con verdure; una chiesa in costruzione, strutture nuove ed impeccabili per i bimbi ospitati, che sono davvero tanti e di ogni età; c’è un campetto in erba recintato per giocare a calcio, ci sono altalene e scivolo, altre giostrine, classi per le lezioni con banchi nuovi e lavagne, c’è davvero tutto. Ma soprattutto ci sono loro, i bambini. Quei bambini che non vorresti mai più lasciare anche solo dopo averli visti la prima volta, gli stessi bambini che vorresti poter rendere felici ma che poi ti accorgi già siano felici del niente che hanno, quei bimbi che ti chiamano “daddy”, quei bimbi che vogliono essere presi in braccio, che ti voglio spettinare i capelli lisci così diversi dai loro, quei bimbi che guardano con occhi sgranati le tue scarpe con le suole così intatte, quei bimbi che s’illuminano quando vedono dei palloni nuovi, bimbi che involontariamente fanno di tutto per farsi ben volere.

Quei bimbi così perfetti che ti fanno chiedere, senza saperti dare una risposta, perché siano li. Quei bimbi che ti fanno innamorare anche se non li conosci. Quei bimbi che si fanno ricordare nonostante siano passati mesi dalla mia esperienza in Etiopia. Quei bimbi che mai dimenticherò.


Qui sono stato raggiunto da Camilla e Francesca, due sorelle volontarie come me, con le quali ho condiviso dieci giorni. Insieme abbiamo fatto, per quanto ci sia stato possibile, da “maestri” ai bimbi più grandi, impegnando le mattinate sui banchi, a fare “lavoretti” con carta, colla, forbici e pennarelli. I pomeriggi sono volati tra una partita a pallone, una a pallavolo, un lancio col frisbee, un girotondo…

Prima di prendere il volo di ritorno, destinazione Italia, ho trascorso l’ultimo paio di giorni di nuovo al Villaggio Madonna della Vita. Due villaggi completamente diversi per location, gestione e per un’infinità di aspetti. Credo venga spontaneo fare dei paragoni. Ma così come questi paragoni nascono, tanto velocemente cadono, solo al pensiero che la sostanza sia la stessa: bambini in difficoltà, senza genitori per diversi motivi, voglia di aiutare loro, così come i coetanei più fortunati (o forse no, dipende dai punti di vista) che i genitori li hanno, ma che non vivono con la dignità che meriterebbero, la dignità che ogni essere umano meriterebbe, ancor più quando si tratti di bambini.

Ho affrontato questo viaggio, ripeto, senza sapere a cosa sarei andato in contro; ho vissuto un’esperienza senza precedenti né pari, ho vissuto emozioni forti, forse più semplicemente ho vissuto; mi sono sentito vivo, mi sono sentito fortunato, anzi no, la parola “fortunato” non riesce a rendere l’idea di ciò che voglio dire: io sono fortunato se ho le scarpe firmate, in Etiopia sei fortunato se arrivi vivo a sera ed il mattino dopo ti svegli.

Ho vissuto e visto cose che mai avrei immaginato. Ho visto di tutto, ma di questo tutto non ho ancora visto niente!

Spero di non essere frainteso quando dico che questo viaggio, questa esperienza, non mi ha cambiato, bensì mi ha fatto maturare, mi ha fatto aprire gli occhi, mi ha fatto ragionare, mi ha permesso di trarre delle conclusioni, mi ha fatto bene nonostante la povertà, la miseria e la tristezza che affliggono il Paese, mi ha dato tanto, davvero tanto. E tutto quello che mi ha dato, credo mi accompagnerà per sempre nella vita di ogni giorno, mi aiuterà a prendere decisioni e a ragionare, mi aiuterà per sempre a crescere e a maturare.

È stata un’esperienza davvero forte, non nego vi siano stati attimi e momenti di leggero sconforto, probabilmente dettati anche da circostanze personali, ma si è trattato di un’esperienza assolutamente positiva, da rifare e da raccontare per coinvolgere quante più persone a fare lo stesso. E non lo dico perché voglia sentirmi dire “bravo”, lo dico solo perché lo meritano i bambini che ho incontrato, lo meritano perché è giusto che anche loro abbiano le coccole ed il calore di un adulto, seppure per un breve periodo, le attenzioni che non gli sono mai state date, dei sorrisi che li facciano sorridere.

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